In genere, il talento non ha genere

  • 12 febbraio 2018

Una mamma che gioca a calcio nella massima Serie Femminile distribuendo il suo tempo tra lavoro, allenamenti e famiglia o una ragazza che frequenta l’Università e deve conciliare con fatica lo studio agli allenamenti quotidiani, per essere una top player nel panorama internazionale, sono alcuni scatti – in bianco e nero- che la vita quotidiana e sportiva ci mette davanti ogni giorno. Questo perché se da una parte ci troviamo davanti ad una trasparente e candida passione che porta con sé sacrifici, sforzi, rinunce pur di valorizzare la propria performance sportiva negli allenamenti e nelle gare, dall’altra ci troviamo davanti ad una fotografia che viene resa opaca in quanto il rullino da sempre viene stampato sotto il nome di “dilettantismo” e non “professionismo”.

Questo quantomeno se le protagoniste sono donne, in quanto lato maschile le cose sembrano decisamente avere diverso trattamento e riconoscimento economico-morale. Basti pensare ad oggi le uniche discipline sportive riconosciute come professionistiche dalla legge 91/1981, sono tutte maschili. Che significa questo? Significa che tutti gli atleti di calcio, golf, basket, ciclismo hanno tutela in ambito di previdenza sociale, assistenza sanitaria e trattamento pensionistico a discapito sia degli altri atleti dei 56 sport considerati dilettantistici che delle donne. Con particolare riferimento a quelle che beffardamente praticano quei 4 sport che lato maschile trovano miglior tutela.

È bene specificare che non si tratta dunque di una recriminazione di facciata o di poco conto in quanto dietro la condizione di “dilettante” non ci sono stipendi (come nel professionismo) ma nella più felice delle ipotesi solo rimborsi spese; non vi è un’assicurazione sanitaria di eguale valore rispetto a quella prevista per gli atleti professionisti (se non per volontà dell’atleta che stipula un’assicurazione personale); non vi è pagamento dei contributi pensionistici e non c’è tutela in caso di invalidità o di maternità.

Considerando che a parità di dedizione e impegno le atlete non hanno nulla da invidiare ai colleghi professionisti e che per questa mancanza evidente di tutele molte di loro si trovano costrette a allentare i ritmi o addirittura allontanarsi dallo sport amato per mancanza di un futuro, forse sarebbe ora di modificare e dare nuova valenza a quella legge 91/1981 che tanto ha fatto e continua a far discutere. Questo perché “in genere, il talento non ha genere” e merita di essere ugualmente valorizzato e tutelato.